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Come si pesca
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In uso da circa trent’anni, la pesca con l’arpione si pratica con imbarcazioni motorizzate chiamate passerelle o anche (con termine tradizionale) feluche» a motore. Sono lunghe fra i 12 e i 20 metri, munite di uno, due o anche tre motori di varia potenza che consentono loro rilevanti velocità. La caratteristica di questi strani natanti, che conferisce ad essi un aspetto inconfondibile, è un enorme albero a traliccio alto fra i 20 cd i 35 metri, nonché una lunghissima passerella (in parte retrattile come le scale dei pompieri), sporgente dalla prora come un enorme e spropositato bompresso, per una lunghezza che può variare dai 20 ai 40 metri. Un fitto intrico di cavi metallici sostiene albero e passerella, facendo apparire le moderne «feluche» come surreali animali da fantascienza. Si tratta in realtà di perfette macchine da preda, cui nessun pesce, una volta avvistato, può sfuggire agevolmente. Sulla cima dell’albero sono sistemate le leve di comando del motore e gli organi di guida del natante, azionati da uno o due uomini, i quali, dotati di vista eccezionale, di insensibilità alle vertigini ed alle amplissime oscillazioni, nonché di pazienza e stabilità emotiva a tutta prova, trascorrono intere giornate alla ricerca dello spada.
Avvistata la preda, essi dall’alto hanno il compito di avvisare opportunamente l’equipaggio in coperta, e di dirigere con precisione l’imbarcazione lungo i volubili percorsi del pesce. La vedetta-timoniere farà quindi in modo da portare sulla verticale di esso l’estremità anteriore della passerella, sulla quale “u lanzaturi”, accuratamente scelto fra i più abili, potrà agevolmente e con estrema violenza lanciare il proprio attrezzo dall’alto in basso e ferrare così la sua preda. Ben difficilmente egli mancherà il bersaglio. Altrettanto impossibile per il pesce trafitto liberarsi dell’arpione, costruito secondo una tecnica raffinata e collaudata da secoli: pare infatti che su dieci ferri» costruiti ne riescano perfetti soltanto un paio: per questo, per antica tradizione, il fabbro ferraio che li costruisce in geloso segreto non li vende ai pescatori, ma glieli affida in uso, ricevendone in cambio una determinata parte del pescato. Una volta arpionata la preda, per l’esperto equipaggio della feluca (per lo più costituito su base familiare) il più è fatto: la punta del «ferro», rimasta conficcata nel corpo del pesce spada, è collegata ad una sagola (chiamata protese) lunga anche più di 500 metri, la quale si svolge ordinatamente da bordo seguendo i convulsi movimenti della vittima, allo scopo di farla lentamente stancare e dissanguare. Non appena poi il pesce dà i primi segni di cedimento, i pescatori ne iniziano cautamente il recupero agendo sulla sagola e quindi utilizzando robusti rampini, con i quali lo immobilizzano ai bordi dell’imbarcazione di servizio della feluca. Queste operazioni secondarie non sono infatti compiute dalla barca principale, ma dal piccolo battello che essa porta sempre a rimorchio. Ciò avviene sia perché in tal modo l’opera di recupero si svolge più agevolmente, sia perché nel frattempo la feluca ha la possibilità di dedicarsi alla ricerca di una nuova preda.
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